Oggi stavo leggendo, con calma, la ricetta dei mostaccioli che una mia amica mi ha gentilmente concesso e già questo è un evento eccezionale visto che le persone della sua zona (e non dico quale ché oggi son buona) non concedono ricette neanche sotto tortura. A una seconda lettura di siffatta ricetta la mia attenzione si è soffermata su un ingrediente che, in precedenza, non avevo notato. Nella quinta riga c'era scritto: un bicchiere di mosto cotto. Ho avuto l'illuminazione: il mosto cotto è la sapa. E con sorrisino da ebete ho ricordato. Mi son sentita molto, ma molto, Proust. Alla ricerca dei profumi perduti. Mi son rivista nella cucina di mia madre, quella piccola oramai abbandonata perché sostituita da una grande quanto un appartamento di medie dimensioni. Ho rivisto mia madre e un grosso pentolone che bolliva e bolliva e bolliva. Era autunno, ne son proustianamente certa. Io e mia sorella gironzolavamo per la casa inebriate o forse nauseate dall'odore pungente di quel mosto che pareva non volesse mai smettere di cuocere. E quell'odore che aveva, indubbiamente, un effetto-sballo non indifferente impregnava ogni cosa e, soprattutto, lo si sentiva anche nei giorni successivi. Anche quando aveva smesso, forse per sfinimento, di cuocere. Anche quando la cucina era stata ripulita. Anche quando gli ambienti erano stati diligentemente arieggiati. Ma quello sballo delle figliole era necessario e fondamentale. Era un passo indispensabile per la realizzazione de su pani 'e saba (pane di sapa) dolce tipico dal colore molto scuro dato, appunto, dalla malefica sapa.
Ora mi verrebbe da chiedere alla mia cara mamma se io e mia sorella siamo venute su così come siamo per via di quelle inalazioni (quindi è tutta colpa sua). E, soprattutto, visto che il danno è ormai fatto mi verrebbe spontaneo chiederle "ma quando lo rifacciamo su pani 'e saba?"
Per concludere, ringrazio Sandra per la gentile concessione e, soprattutto, per il momento proustiano che, inconsapevolmente, mi ha regalato.
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